Data: 
Martedì, 11 Giugno, 2024
Nome: 
Gianni Cuperlo

Grazie, Presidente. “Si conoscono bene solo gli uomini che non sono niente di diverso da quello che appaiono. Per chi possiede un di più di vita interiore la comprensione è lenta, lunga e soprattutto postuma”, parole di Mario Tronti su Enrico Berlinguer. Sono passati quarant'anni dal più grande funerale di massa nella storia di questo Paese. Quarant'anni, eppure, la figura di Berlinguer appare agli occhi di tante e di tanti come un esempio vivo. Lo si coglie in questi giorni, nelle piazze, nei teatri, nei libri che lo raccontano. Io mi sono chiesto molte volte la ragione di questo rispetto e di questo affetto mai sopiti. Non è frutto della nostalgia; molti, allora, non erano neppure nati. Io credo, invece, che sia la coscienza su ciò che è venuto a mancare dopo.

Enrico Berlinguer è stato un comunista italiano, dove l'aggettivo non è dettaglio, ma sostanza. Nei 12 anni della sua segreteria ha coltivato una sola strategia: avvicinare il più possibile il suo partito all'esercizio di una responsabilità nel Governo nazionale del Paese e non c'è dubbio che egli sia stato il leader che, dopo la rottura del 1947, più si è avvicinato a quel traguardo. Berlinguer ha avuto una sola strategia e un unico vero interlocutore nella Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Con la morte di Moro, anche la strategia berlingueriana va incontro ad un paradosso: Berlinguer prende atto del patto di governo tra il partito di maggioranza relativa e le forze laiche e socialiste, a quel punto la via del Governo gli appare preclusa. Il paradosso vive qui, perché può darsi il caso, colleghi, di un leader politico dotato di una strategia, ma senza un popolo alle spalle; è più raro, ma può accadere, il caso di un leader orfano di una strategia a lungo coltivata, ma cosciente che dietro di lui c'è ancora un popolo pronto a seguirlo. Quella è la condizione che accompagna gli anni finali della vita di Enrico Berlinguer: un italiano su tre votava comunista, ma è in quel passaggio di tempo che una generazione scopre quel leader così anomalo nello stile, nella sobrietà e in una lingua corredata dall'eleganza di un accento sassarese. E quella generazione si innamora di lui. Avviene perché la scelta del segretario comunista è la più difficile e anche la più coraggiosa. Lui sceglie di proiettare quel patrimonio di consenso e di passioni dentro un tempo storico che era di là da venire. Sono gli anni della denuncia e della proposta. Con Eugenio Scalfari accusa i guasti di partiti incistati nello Stato e nel potere. Non tutti, anche dentro i vertici del suo partito, capiranno; alcuni avrebbero giudicato le sue parole una deriva moralistica, minoritaria, mentre erano, all'opposto, la denuncia di una decadenza che avrebbe portato al collasso del sistema politico.

Negli anni successivi, Berlinguer avrebbe schiuso porte su tutti i principali capitoli della modernità, della nostra modernità, colleghe e colleghi: la pace - la pace in una battaglia che Pio La Torre avrebbe pagato con la vita -, le frontiere dei diritti civili, il pensiero femminista, le radici dell'ambientalismo. Quella stagione e quell'uomo ebbero la forza di dettare un'agenda che ogni altra cultura e movimento, anche quelli oggi presenti in quest'Aula, avrebbero coltivato solamente nel dopo. Si trattò dell'utopia di una mente visionaria? Io penso di no. Fu altro, fu la testimonianza di un pensiero non ripiegato unicamente sulla conquista del potere; fu la ricerca di un senso, un senso che la politica deve coltivare e che oggi milioni di giovani cercano, tra le tante forse la sua eredità più preziosa, che però non sempre ci ha visti all'altezza. In quella sua ricerca, la bussola era la difesa e la promozione degli umili, degli ultimi, dei ceti più popolari. Non c'era alcun moralismo in quelle battaglie, c'era il primato di una questione sociale che, ieri come oggi, è prima di tutto un'enorme questione morale.

Nello scorcio finale della sua vita, Berlinguer fu messo in minoranza dalla direzione del suo partito, per onestà anche questo va detto, ma con la stessa onestà possiamo dire che se perse il consenso di un pezzo della classe dirigente, conquistò la stima e l'affetto di un popolo. Lo ha spiegato bene il più giovane addetto alla sua scorta: i colleghi vecchi lo avevano protetto dalla violenza del terrorismo, noi giovani l'abbiamo protetto dal troppo amore della sua gente. Su quanti altri si potrebbe dire qualcosa di simile?

Infine, Presidente, c'è stato l'uomo, ma su questo dovrebbero parlare i figli, Bianca e Laura, che lei giustamente ha salutato e che sono oggi su quella tribuna, Marco e Maria. Noi possiamo solo rispettare il pudore dei ricordi di chi, prima del leader, ha conosciuto e amato il padre.

Scorsero fiumi di inchiostro in quelle giornate del giugno di quarant'anni fa, ma fu Mario Melloni, in arte Fortebraccio, a salutarlo sulla prima pagina de l'Unità con le parole più sincere e più profonde. Erano due righe in tutto, Presidente, sulla prima pagina di quel quotidiano: “È stato un uomo politico”. Punto. Vi pare una banalità? Fine. No, non era una banalità allora e non lo è oggi, a 4 decenni di distanza. “Di cosa va più orgoglioso, segretario Berlinguer?” gli chiese Giovanni Minoli nella sua ultima intervista a Mixer: “Di non avere mai rinunciato agli ideali della mia giovinezza”. Forse solamente per questo noi, venuti dopo, possiamo dire grazie.